Il comunismo è morto. Viva il comunismo

Giuliano Martignetti

Il comunismo è morto. Viva il comunismo. L’illusione di un movimento che diventa potere mantenendo la trasparenza, è caduta subito.

«L’illusione di un movimento che si trasforma in potere mantenendo la trasparenza delle domande che porta, è caduta all’indomani della rivoluzione d’Ottobre» (Alberto Melucci, L’invenzione del presente, Il Mulino, Bologna 1982)

«…la sinistra non scompare con la sua rappresentanza istituzionale. Pensare che il gioco si teneva principalmente nel palazzo è stato l’errore di fondo, ritenere di conoscere a memoria la società e le sue contraddizioni la tragedia più vera» («il manifesto», 18 aprile 2008)

Il comunismo è morto. Viva il comunismo

U come ucronia, o storia virtuale…

Un giorno chiesero al Mahatma Gandhi: «Che farà il partito del Congresso, una volta ottenuta l’indipendenza?». Gandhi rispose: «Dirà la verità al potere». Non: prenderà il potere, ma: dirà la verità al potere.

Se così fosse stato forse il Congresso avrebbe potuto divenire una grande forza politica e morale per l’India e per il mondo. Ma Gandhi poco dopo l’indipendenza venne assassinato. Il Congresso prese il potere e gli eredi politici dell’apostolo della nonviolenza, nel giro di pochi anni occuparono militarmente il Kashmir; fecero due guerre con il Pakistan, una con la Cina. E finalmente, rifiutata la firma del TNP, fecero dell’India la sesta potenza mondiale dotata di armi atomiche.

Supponiamo ora che nel 1917 arrivando alla stazione Finlandia avessero chiesto a Lenin se i bolscevichi stessero apprestandosi a prendere il potere e supponiamo che Lenin avesse risposto:

«No, non prenderanno il potere, non foss’altro che per non fare la fine dei socialisti tedeschi e francesi che tre anni fa per amore del potere, hanno scelto di stare dalla parte della patria, contro la pace e il socialismo. Quello che faremo sarà un nuova internazionale che si batterà per la pace, la giustizia e l’uguaglianza, indistintamente a favore di tutti gli uomini e i popoli del mondo».

Forse…

Forse se così fossero andate le cose, se il movimento comunista, anziché uno strumento della ragion di stato granderussa fosse davvero stato un grande movimento internazionale, capace di «dire la verità al potere» di tutti gli stati del mondo, lo spaventoso periodo tra le due guerre avrebbe potuto essere diverso.

E forse il nazismo avrebbe potuto essere combattuto con costi meno sanguinosi. O forse non sarebbe nemmeno nato perché i socialisti tedeschi non si sarebbero preoccupati più del pericolo comunista che di quello nazista, come invece fecero, dietro consiglio del vecchio e saggio Hilferding…

Forse in un’internazionale siffatta si sarebbe ascoltata la voce di un Altiero Spinelli, spedito in galera e poi al confino dai fascisti perché comunista, allorché criticava «i più intelligenti tra i marxisti, cioè i comunisti» per essersi fatti sedurre dal «mito russo». Ciò che avrebbe avuto «nel campo della politica internazionale, quasi l’unico effetto di far sorgere speranze palingenetiche, lasciando completamente nell’ombra, in tutto il periodo critico del dopoguerra l’organizzazione della pace del mondo»; lasciando così che fossero i vecchi statisti a occuparsene e a produrre «l’aborto della Società delle Nazioni» (Il manifesto di Ventotene, 1941, edizione anastatica, Celid, 2001).

E forse tra un’internazionale siffatta avrebbe potuto maturare l’incontro con la nonviolenza di Gandhi, il quale asseriva che «non si può negare il fatto che l’ideale bolscevico ha dietro di sé il sacrificio più puro di innumerevoli uomini e donne… un ideale consacrato dai sacrifici di uomini della levatura spirituale di Lenin non può risultare vano». E tuttavia ammoniva: «gli amici bolscevichi che guardano con interesse al mio insegnamento devono comprendere che per quanto possa condividere e ammirare le aspirazione i sentimenti nobili, io sono inflessibilmente contrario ai metodi violenti».

Forse in anni ormai vicini ai nostri una internazionale comunista siffatta avrebbe fatta propria la parola d’ordine dell’ austerità lanciata nel 1977 da Enrico Berlinguer al Convegno degli intellettuali: dell’austerità come «mezzo per contrastare alle radici e porre le basi del superamento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale di fondo», e che ha alla sua base «l’illusione che sia possibile perpetuare un tipo di sviluppo fondato su quella artificiosa espansione dei consumi individuali, che è fonte di sprechi, di parassitismi, di privilegi, di dissipazione delle risorse, di dissesto finanziario».

Parole singolarmente anticipatrici

La questione ambientale che Berlinguer poneva con chiarezza era stata ufficialmente dichiarata solo pochi anni prima (primo Vertice della Terra, Stoccolma 1972). Già il segretario del PCI ne intravvedeva l’enorme valenza politico sociale. Non a caso tra i partecipanti al Convegno, c’era anche, citato da Berlinguer, Giorgio Nebbia uno dei padri dell’ambientalismo scientifico italiano.

Qualche anno dopo Berlinguer moriva. Sull’onda della commozione suscitata dalla sua scomparsa nelle elezioni tenute poco dopo per la prima e unica volta il PCI superava la DC nel voto popolare: mai la via parlamentare al socialismo in un paese solo era parsa tanto prossima alla meta. Ma nel 1989 crollò il muro di Berlino, nel 1991 l’Unione Sovietica si dissolse, nel 1992 il PCI cambiò nome e sostanza.

Oggi, primavera 2008, gli ultimi resti del grande partito berlingueriano sono stati espulsi dal parlamento. Verosimilmente, con l’uscita dalla scena di Fidel Castro anche l’unico tentativo forse decente di via autoritaria al socialismo in un paese solo volge alla fine. Comunismo, capitolo chiuso?

U come utopia concreta

Certo che no.

Ciò che forse Belinguer aveva compreso e che ora i fatti certificano oltre ogni ragionevole dubbio è che la questione ambientale avrebbe reso straordianariamente attuale il comunismo; più precisamente il suo valore cardine, l’uguaglianza. Solo che egli non capì che soltanto un movimento comunista libero dal miraggio fallace della conquista di poteri nazionali e perciò catturato dalla logica di tante ragion di stato contrapposte (perché così come il capitalista «non è che il funzionario del capitale», così il governante lo è fatalmente dell’interesse nazionale) poteva e può operare per salvare la specie umana dalla catastrofe ambientale.

Questo seconda tesi necessiterebbe di più spazio per essere politologicamente argomentata. Per la prima invece basta far parlare pochi dati essenziali.

La scienza dell’ambiente ci certifica che la pressione antropica sull’ecosistema ha superato la sua capacità di sopportazione; nel senso che, anno dopo anno, consumiamo più risorse naturali e alteriamo più equilibri ambientali di quanti l’ecosistema stesso sia in grado di rinnovare e ricostituire. Fino a 30 anni fa è stato quasi solo il “nord” del mondo il responsabile del saccheggio.

Ma a partire all’incirca da allora immense masse umane, cinesi e indiani in primo luogo, si sono incamminate sulla strada della crescita accelerando la distruzione, forse già irreparabile, di capitale naturale; e si prevede che taluni di essi presto sopravanzeranno in questa dissennata gara i popoli più ricchi. I cinesi ad esempio (dati AIEA) entro il 2030 moltiplicheranno per sette le automobili di oggi (270 milioni), il loro consumo di energia sarà più che raddoppiato.

Già fra due anni la Cina avrà superato gli Stati Uniti per il consumo di petrolio; mentre appena tre anni fa, la domanda americana era ancora superiore di un terzo. Le conseguenze prevedibili di ciò sono note. La stragrande maggioranza dei climatologi avverte che a tale ritmo di crescita delle combustioni di fonti fossili e delle relative emissioni di CO2, il mutamento climatico spingerà l’ecosistema oltre la soglia della risposta lineare e sarà il caos.

D’altra parte come convincere cinesi e indiani a non seguire il nostro esempio, a invitarli a non tener conto che ancora ieri (2005) i consumi dei primi erano pari a meno del 70% di quelli medi mondiali e a meno del 40% di quelli italiani; e quelli indiani rispettivamente a meno del 30% e del 17%?

U come uguaglianza

Non vedo che una risposta, a valere ovviamente sia per il settore energetico sia per l’intero arco delle risorse naturali. La negoziazione e l’accordo su un’equa redistribuzione delle medesime, che consenta una crescita alle fasce sociali oggi svantaggiate (non solo quindi, sia chiaro, delle misere masse del “sud” del mondo ma anche di quelle povere o in via di impoverimento del “nord” ricco del mondo) a fronte di una decrescita dei consumi superflui delle fasce alte della piramide sociale mondiale.

Insomma un programma planetario nel segno dell’uguaglianza, «l’ideale consacrato dai sacrifici di innumerevoli uomini e donne» comuniste. Una prospettiva di lavoro che dovrebbe apparire congeniale e molto più entusiasmante alle nostre sinistre «estreme» di quella di riportare fra qualche anno qualche inutile deputato nelle aule parlamentari. I comunisti in particolare, sulla questione cruciale dell’ambiente, non avrebbero da imparare nulla da nessuno, perché alla storia della loro cultura appartengono molte della maggiori firme dell’ambientalismo italiano.

A Giorgio Nebbia che ho già citato aggiungerò solo i nomi della grande e indimenticabile Laura Conti, di Vittorio Silvestrini de La ristrutturazione ecologica delle civiltà (Cuen, 1990) e, ancora, quelli di Massimo Serafini e Mario Agostinelli. Opera loro è il Contratto mondiale per l’energia, approvato al Vertice no-global di Portoalegre; un programma di redistribuzione rigorosamente ugualitaria dei consumi energetici e di promozione delle fonti rinnovabili e delle tecnologie energy saving (cfr. in Energia rinnovabilità democrazia, Punto Rosso, 2005)

Uguaglianza, internazionalismo, austerità

Questo l’orizzonte strategico in cui dovrebbe muoversi il movimento comunista, ritrovando le sue radici più profonde. Dipenderà molto dalle sue scelte, dal fatto che avrà saputo o meno affiancarsi ai nuovi movimenti impegnati per un’altra globalizzazione, e per un vero governo democratico del mondo e non una sua pallida governance se le grandi sfide del nostro tempo potranno essere affrontate con possibilità di successo. Naturalmente ciò non può significare disinteresse per i problemi che si pongono a livello locale, regionale, nazionale, perché al loro proprio livello, come insegna il principio di sussidiarietà, essi debbono essere affrontati.

Sarebbe gravemente errato il non farlo perché sono quelli che la gente sente più prossimi e importanti e perché è lì che in primo luogo si difende, dove c’è quel poco di democrazia che c’è nel mondo. Ma proprio il principio di sussidiarietà ci dice che il livello più alto, quello mondiale, è oggi del tutto sguarnito. È qui che il grande capitale multinazionale, l’«impresa irresponsabile», ha riprodotto, come negli anni trenta del ‘900, la «grande trasformazione» e ricreato l’idolo del mercato autoregolato, che oggi si chiama «Washington consensus», e dove non c’è questa volta nessun potere politico che possa «rimettere a letto» quello economico, ma solo inchinarsi a esso e recitare in suo onore il credo neoliberista.

[Giuliano Martignetti, maggio 2008]


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