In Tibet la soluzione è la non-violenza – Ilaria Urbani intervista Thic Nhat Hanh

thay-smileunderbamboo_tif.jpgIlaria Urbani intervista Thic Nhat Hanh, vietnamita, una delle figure più importanti del buddismo.
In Tibet la soluzione è la non-violenza
Il monaco zen: «I tibetani spieghino le loro ragioni. Pechino inviti il Dalai Lama e lui parli di pace, non di politica»

Non violenza, affermazione della propria identità e consapevolezza di sé. Sembrano parole difficili da dire in uno momento così critico come quello che vive il Tibet in queste settimane. Eppure Thich Nhat Hanh, una delle figure più rappresentative del buddhismo nel mondo insieme al Dalai Lama, in visita da ieri a Napoli, non ha problemi a pronunciarle con il sorriso sapendo che «i tibetani non perderanno la speranza e il buonsenso prevarrà sulla violenza».
Il Thay (come lo chiamano i suoi seguaci), monaco zen vietnamita dall’età di 16 anni, giunto nel capoluogo partenopeo per la camminata-meditazione in piazza del Plebiscito domani alle ore 10 (anteprima della rassegna L’arte della felicità), durante la guerra del Vietnam è stato uno dei fondatori dei Piccoli Corpi di Pace, movimento di resistenza non-violenta. Nel ’67 Martin Luther King lo candidò al premio Nobel per la pace mentre poco dopo venne costretto all’esilio che per 39 anni lo ha tenuto lontano dal Vietnam, dove è tornato nel 2005. Negli anni vissuti in Francia ha fondato il Plum Village, comunità di monaci vicino Bordeaux frequentato ogni anno da milioni di persone.

Guardando al Tibet, a che punto è la strada della non-violenza anche di fronte alla repressione del governo cinese?
La nonviolenza è sempre praticabile. I tibetani devono avere consapevolezza della loro identità culturale, fiduciosi che attraverso il cammino di meditazione e comprensione riusciranno a spiegare le loro ragioni. Per trentanove anni sono stato in esilio dal Vietnam ma quando sono tornato ho parlato di pace e non di politica. Se al Dalai Lama sarà concesso di andare in Tibet non dovrà parlare di politica, aiuterebbe tanto. Abbiamo chiesto all’Unione europea di impegnarsi affinchè il governo cinese inviti il Dalai Lama. Andrei con lui in Cina. Conosco molti cinesi che apprezzano il buddismo tibetano, apprezzerebbero anche l’inizio di un percorso di condivisione reciproca.

La comunità internazionale sta guardando con apprensione alla vicenda tibetana, quali altri passi potrebbero favorire un percorso di mediazione?
Abbiamo già chiesto alle Nazioni Unite di mandare in Tibet una missione multinazionale di ricognizione. L’Onu dovrebbe recarsi lì unicamente per ascoltare la sofferenza dei cittadini. Il mio ritorno in Vietnam mi ha insegnato che le paure e i sospetti su di me diminuivano progressivamente all’aumentare del dialogo con le persone. Per lungo tempo in Vietnam è stata forte l’influenza cinese, ma proprio se si pensa a quel paese non si perde la speranza per i tibetani.

Ma anche in Vietnam i buddisti sono in pericolo…?
Ho chiesto personalmente al governo vietnamita di invitare al più presto il Dalai Lama. Molti dirigenti del partito comunista sono affascinati dal buddismo. Sia in Cina che in Vietnam il buddismo è nel sangue delle persone che da secoli lo praticano. Poco più di mezzo secolo di comunismo non ha cancellato il buddismo che non deve essere visto come l’oppio dei popoli ma come uno stato mentale. Al governo cinese direi che il buddismo è essenziale nella cultura tibetana, cinese e vietnamita. Il sentimento della compassione sarebbe un contribuito benefico per la Cina in questo momento.

Non solo Tibet. Sono centinaia i conflitti nel mondo. Anche lì a trionfare è sempre la violenza….
Se le persone attaccano c’è sempre un motivo. L’attacco alle Torri gemelle dell’11 settembre è stato causato da una percezione erronea della realtà. Ero a San Francisco quando ci fu l’attacco, e ora come allora ripeto che l’America deve calmarsi. Deve espirare ed inspirare. Guardare in profondità e capire perché la odiano. Si sarebbero dovuti chiedere «devono essere molto arrabbiati con noi per attaccarci, ci odiano tantissimo?». Gli americani si devono chiedere perché chi li attacca ha una percezione erronea dell’America. Le percezioni erronee non si rimuovono con le bombe. Capire le idee degli altri aiuta a non attaccare generando nuovo odio. Da allora infatti il terrorismo è soltanto aumentato.

Ha conosciuto Martin Luther King. A Napoli come in Tibet o in Iraq il suo messaggio è ancora possibile?
La memoria di Martin Luther King non è sufficiente, non è abbastanza. Ogni giorno bisogna agire secondo la nonviolenza. Io sto proseguendo il suo lavoro. Non è necessario essere buddisti per essere felici. Bisogna parlare e camminare in modo consapevole. Bisogna favorire le energie positive. I buddisti in California hanno un monastero alimentato ad energia solare e viaggiano a bordo di auto con biocombustibile. Bisogna capire che semplificare la vita significa non solo portare felicità a se stessi e agli altri ma anche alla Terra.