Ombre irachene su Teheran

Molto interessante la conclusione del Consiglio direttivo dell?Aiea, a Vienna. Il deferimento al Consiglio di Sicurezza delle ambizioni nucleari dell?Iran c?è stato, anche a larga maggioranza (28 su 35), ma gli Stati Uniti sono stati costretti a ingoiare un emendamento egiziano, appoggiato da Russia, Cina ed Europa, che pone come obbiettivo la denuclearizzazione di tutta l?area mediorientale (Israele compresa). Non si tratta di una semplice formula diplomatica ma forse della sola possibile via d?uscita da un labirinto altrimenti irto di ostacoli insormontabili, potenzialmente esplosivi.
La natura inquietante del regime che governa l?Iran non può oscurare il fatto che si tratta di un grande Paese, infiammato da un forte sentimento religioso, oltreché segnato da un?antica tradizione imperiale. Soprattutto non può essere ignorato il fatto che esso sia circondato da Stati che, per una varietà di motivi si sono dotati di armi nucleari: Russia, Israele e, più recentemente, India e Pakistan. Dominano la sua politica estera sia motivi di prestigio ed equilibrio regionale, sia il timore di restare in balia della più grande potenza militare del mondo che ha dimostrato in tempi recenti, con le due guerre del Golfo la propria inclinazione a ricorrere alla forza, senza troppi riguardi per regole di diritto internazionale. Di conseguenza è assai probabile, per non dire certo, che Teheran non si accontenti di esercitare il suo diritto – che non contravviene ad alcuna norma dello statuto dell?Aiea né del Trattato di non proliferazione – di dotarsi della capacità di produrre energia nucleare a scopo civile, di cui peraltro non avrebbe bisogno per l?abbondanza di petrolio di cui dispone. A differenza della Corea del Nord, l?Iran non è nemmeno costretto da tragiche ristrettezze economiche a fare delle proprie ambizioni nucleari una moneta di scambio per ottenere contropartite di diversa natura. È assai più probabile, per non dire certo, che l?attuale governo iraniano, malgrado o forse anche a causa di malcelate controversie interne, effettivamente miri a dotarsi dell?arma nucleare, al pari dei suoi vicini e dello Stato di Israele che ama indicare, nelle forme più truculente come suo arcinemico.
Gli strumenti di cui è dotata la comunità internazionale per impedirlo sono di dubbia efficacia e così gravidi di tragiche conseguenze da risultare improponibili. Gli Stati Uniti, che hanno costituito il principale motore per il deferimento al Consiglio di Sicurezza votato a Vienna, sembrerebbero avviati sulla strada di una prevedibile escalation: condanna del Consiglio di Sicurezza, sanzioni, ultimatum, intervento militare o, quanto meno, eliminazione chirurgica degli impianti nucleari esistenti sul territorio iraniano.
Le condizioni politiche in cui versa il governo di Washington, impegnato in una occupazione ancora priva di sbocco in Iraq, la prudenza delle sue stesse dichiarazioni, la natura del dibattito interno agli Stati Uniti difronte a una tale eventualità, fanno dubitare che sia così. Inoltre, il bisogno di non compromettere la collaborazione con la maggioranza sciita in Iraq impone quantomeno alla Casa Bianca la necessità di guadagnare tempo prima di arrivare a un?azione militare che farebbe precipitare un conflitto complessivo con il mondo musulmano, obiettivo dichiarato del terrorismo islamico. Un?azione contro gli impianti nucleari risulterebbe tecnicamente inefficace per la loro disseminazione sul territorio. Se poi essa fosse delegata ad Israele esporrebbe quel Paese già in prima linea a rischi intollerabili di medio se non di breve periodo.
Né gli Stati Uniti possono ignorare le remore dei Paesi che finora, con non poche difficoltà, hanno accompagnato il loro tragitto. La Russia, per le difficoltà e per le ambizioni egemoniche che nutre nei confronti di diversi Stati dell?ex Unione Sovietica, ha già segnalato di non volere esasperare i rapporti con un potente vicino. I nuovi colossi economici, in primo luogo la Cina, la stessa Unione Europea dipendono in misura rilevante dal petrolio iraniano in un mercato segnato dal divario crescente tra offerta e domanda. Il fronte del rifiuto anche solo delle sanzioni è assai esteso. Se anche vi si dovesse arrivare, lo scenario più probabile è quello di un prolungato braccio di ferro inconcludente in cui le pressioni della comunità internazionale non precluderebbero l?armamento nucleare dell?Iran ma rischierebbero di avere l?effetto di rendere più compatto e più aggressivo un regime altrimenti non privo di rilevanti contraddizioni interne, catalizzando ulteriormente le tensioni e i conflitti di valore tra Paesi occidentali e mondo musulmano.
Paradossalmente il principale intoppo che ha ritardato il raggiungimento di un accordo a Vienna contiene i semi di una prospettiva diversa e più costruttiva di quella appena descritta. L?Egitto e altri Paesi cosiddetti non allineati (un?eredità terminologica della guerra fredda) hanno ottenuto l?inserimento nella risoluzione dell?obbiettivo della denuclearizzazione di tutta l?area mediorientale, con un evidente riferimento al deterrente israeliano (non a caso Israele non ha firmato il Trattato di non proliferazione). Gli Stati Uniti si sono opposti invano a tale pretesa affermando che essa avrebbe potuto costituire un pretesto (o una ragione?) del rifiuto iraniano a rinunciare all?arma atomica. In realtà il deterrente di Israele, come la natura teocratica del suo ordinamento statuale, per quanto fondati su ragioni forti, legate alla storia di quel popolo, costituiscono i due «non detti», le due grandi omissioni, della politica mediorientale degli occidentali e, in particolare, degli Stati Uniti.
Perché Russia, Cina e Europa non hanno opposto un rifiuto alla richiesta egiziana, per conseguire il risultato immediato (il deferimento dell?Iran al Consiglio di Sicurezza dell?Onu) gli Stati Uniti hanno dovuto accettare una nuova e più larga impostazione del problema iraniano, finalmente inserito in un contesto geopolitico. A ben vedere non si tratta di un problema diplomatico o formale. Solo la prospettiva di un accordo sulla sicurezza del Medio Oriente e del Mediterraneo nel loro insieme può offrire una prospettiva di stabilità e anche di rinuncia generalizzata alle armi atomiche. È, però, evidente che, per soddisfare le esigenze di Israele, piccolo Stato isolato, anche se dotato di una difesa assai più efficiente dei suoi numerosi vicini, un simile accordo non può limitarsi alla denuclearizzazione, ma deve comprendere una graduale riduzione di armi convenzionali. Inoltre, tutto ciò potrà soltanto avvenire nel quadro di un?applicazione complessiva del Trattato di non proliferazione che non impegni soltanto coloro che non posseggono armi nucleari a rinunciarvi in futuro, ma anche gli Stati nucleari a procedere sulla via del disarmo strategico.
Si tratta di utopia? Nell?immediato certamente. Perché una simile prospettiva comporta una disponibilità, oggi inesistente, di ciascuno dei principali protagonisti (Iran, Stati Uniti, Israele, Russia) a mettere in discussione importanti aspetti della loro politica estera. Essa contiene in particolare una sfida a Bush junior di riuscire a fare ciò che era riuscito a suo padre, dopo la prima guerra del Golfo: a emanciparsi da un’evidente dipendenza nei confronti di Israele su tutto lo scacchiere mediorientale. Non è facile che ciò avvenga, ma gli avvenimenti incalzano i protagonisti. A Washington anche il più convinto neoconservatore sa bene che una prova di forza con l?Iran moltiplicherebbe le difficoltà derivanti dell?occupazione dell?Iraq, alla delle elezioni congressuali autunnali. Meglio, quindi, muoversi nella direzione dell?utopia, anche senza riuscire a raggiungerla in tempi brevi.